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Monte Amiata: una Toscana alternativa
Una terra aspra ed essenziale piena di boschi, per un “turismo del silenzio e del buio”
Il marchio più noto, vendibile e internazionale del turismo italiano è certamente la Toscana, in tutte le sue accezioni: paesaggio, storia, monumenti, prodotti, gastronomia. Lo stile “toscano” è famoso in tutto il mondo e influenza addirittura gli stili architettonici: ricordo che in Australia ho incontrato degli architetti italiani a cui veniva chiesto di progettare case e ville in stile “toscano” Eppure non tutta la Toscana è “toscano”.
Esiste un’altra Toscana, diversa, con un altro sapore, un altro paesaggio. È la zona dell’Amiata. Una Toscana atipica e quasi sconosciuta. Più aspra, essenziale. Siamo tra le provincie di Grosseto e Siena, tra boschi di faggi, castagni e abeti. Il classico ulivo, che caratterizza la Toscana da cartolina, qui è ben poco presente, al massimo verso Grosseto, nella zona di Seggiano. Una croce monumentale in ferro di 22 metri è il simbolo che sta in cima al Monte Amiata. Dove ci sono anche impianti sciistici.
L‘Amiata è un vulcano spento e per gli Etruschi era sacro, la sede di Tinia, il Dio più importante. L’Amiata è il posto per eccellenza dell’ “acqua calda”: la geotermia, l’energia che sgorga (anzi, zampilla e vaporizza) dal sottosuolo. Stiamo parlando di paesi come Arcidosso, Roccalbegna, Piancastagnaio, Castel del Piano, Abbadia San Salvatore, Seggiano, Santa Fiora, Radicofani.
La storia del Monte Amiata a terra
Anche sull’Amiata comunque non manca la storia. Il paese forse più famoso è Arcidosso. Le sue origini sono precedenti all’anno 1000 e fu possedimento degli Aldobrandeschi e poi dei Medici a metà del 1500. E il suo simbolo è appunto la Rocca Aldobrandesca. Poi c’è Abbadia San Salvatore, sul versante senese. C’è da vedere il Monastero, e soprattutto il Museo Minerario, un segno storico che qui sull’Amiata è molto importante. Da Abbadia inizia la zona dei boschi di faggio e di castagno. Piancastagnaio è stato a sua volta dominio della famiglia degli Aldobrandeschi e dei Conti Orsini ed è famoso soprattutto per il suo Castello e per la grande centrale dell’Enel dove si produce energia geotermica.
Ma come funziona la geotermia? In pratica i vapori che arrivano in superficie dalle sorgenti di acqua caldissima del sottosuolo vengono sfruttati per far girare delle turbine che a loro volta producono l’elettricità. E, appunto, quel che resta viene usato per riscaldamento, di serre e non solo. Per sfruttare meglio la situazione viene immessa anche acqua fredda in profondità. La geotermia è davvero una grande ricchezza. In questa zona – di qui a Larderello – ci sono 33 centrali che producono 5 miliardi di Kwh, un quarto del fabbisogno di tutta la Toscana, il corrispettivo di più di un milione di tonnellate di petrolio, che in questo modo viene risparmiato. Naturalmente c’è anche il rovescio della medaglia: con la geotermia si rischia l’inquinamento delle falde acquifere, che vengono attraversate e coinvolte.
Poi c’è Radicofani, anch’esso famoso per la sua Rocca che guarda verso la Val D’Orcia e che risale a prima del 1.000. La Rocca fu possedimento dei monaci e poi del Papa. E’ importante perché dominava tra le altre cose la Via Francigena. Radicofani è il Paese del leggendario Ghino di Tacco, considerato il Robin Hood italiano. Dal 1297 al 1300 “castigatore di ingiustizie e di potenti”, per altri semplicemente un bandito. Viene citato anche da Dante e Boccaccio e io mi ricordo che era lo pseudonimo di Bettino Craxi (sic, anzi, sigh!).
Seggiano è il paese che, guardando verso ovest e cioè verso il mare, ci riporta in parte all’idea classica di Toscana, con i suoi uliveti. E qui infatti troviamo finalmente un olio, l’extra vergine Seggiano DOP, che rappresentano una delle maggiori fonti di guadagno del paese. Io tra l’altro sono stato al Mulino ad Acqua del signor Agliano. Un mulino a pietra, perfettamente restaurato, bello e interessante da vedere e che produce anche una squisita farina di castagne.
Turismo del silenzio e del buio
Ma non si può dire che l’Amiata sia una zona ricca, anzi. Il problema, come in molte altre zone dell’Appennino italiano, è lo spopolamento e l’abbandono delle terre. Per tutto quello che dicevo prima l’Amiata rischia appunto di essere una zona depressa, marginale. Per questo tre mesi fa i suoi 13 Comuni si sono trovati tutti assieme in Regione Toscana a chiedere un piano di sviluppo. Ma quale sviluppo? La ricetta è quella di cui abbiamo parlato tante volte, e che riguarda da vicino noi turisti: da queste parti (e a mio avviso in tutta Italia) non ci resta che il modello di uno sviluppo turistico, agricolo, rurale, ambientale. Basato anche sull’ospitalità diffusa (cioè case in affitto e agriturismi) e sulla riscoperta di prodotti, di allevamenti, di razze autoctone. Ad esempio si sta riscoprendo e recuperando un maiale simile alla più famosa Cinta Senese, la Macchiaiola Maremmana. O un tipo di pecora come la Amiatina. E, di qui, formaggi speciali come il Marzolino.
Un’altra cosa interessante che si sta organizzando è il cosiddetto “turismo del silenzio e del buio”. Detta così è come se ti accompagnassero in una tomba, ma in realtà è un’idea migliore… L’Amiata è un luogo solitario, lontano dalla confusione, dove ancora sono agibili sentieri e stradine deserte. Il turismo del silenzio significa appunto passeggiate e gite, o anche trekking, il luoghi tranquilli. E il turismo del buio approfitta del fatto che qui l’inquinamento luminoso è molto basso e di notte si possono vedere le stelle in modo particolarmente nitido.
Ma c’è anche un turismo di vago sapore mistico e religioso: l’Amiata, e soprattutto il Monte Labbro che gli sta accanto, hanno fama di essere posti di grande energia. E infatti ci sono nate tante Comunità, anche buddiste e meditative. La più famosa risale a circa 150 anni fa… Non si può venire sull’Amiata e non seguire le tracce di David Lazzaretti, il profeta dell’Amiata. E mi sono arrampicato appunto fino ai 1200 metri della cima del Monte Labbro, dove ancora si vedono i suggestivi resti del suo Monastero, della sua Chiesa e della sua Comunità.
Ma chi era David Lazzaretti? Ne avrete certamente sentito parlare… Era un “sessantottino”, nel senso che ha fatto il ’68. Ma nel suo caso era il 1868. E’ nato da queste parti, ad Arcidosso, nel 1834. Faceva il birocciaio, che è come dire il camionista. Era analfabeta, veniva da una famiglia povera, ma era intelligente e girava su e giù, magari fino a Roma, imparando molte cose. Ad un certo punto della sua vita ebbe una visione, da piccolo, poi ne ebbe un’altra successiva: un vecchio frate che gli assegnava una missione. Si è ritirato in una sorta di eremitaggio mistico, quindi ha fondato una Comunità. E ha sviluppato da una parte un discorso religioso millenarista (cioè ipotizzando un nuovo patto fra Dio e l’Uomo per ripartire da zero, per un mondo migliore) e dall’altra ha sviluppato un’attività sociale interessantissima.
È diventato una specie di San Francesco e di Che Guervara. Nella sua Comunità di circa 500 persone ha inventato persino le Quote Rosa: le donne avevano diritto di voto. Ha fondato in pratica una Cooperativa. Ha organizzato due scuole, per tutti: in questo modo ha persino anticipato Steiner e le scuole steineriane… Ha inventato la Bandiera Arcobaleno, visto che durante le sue processioni la gente si doveva vestire di tutti i colori. Gramsci della sua esperienza ha scritto: “(…) una iniziativa autonoma dei subalterni per scrivere la loro storia”. Fatto sta che Lazzaretti un miracolo lo fece davvero: riuscì a metter d’accordo Stato e Chiesa (che ai quei tempi non andavano d’accordo affatto) che si sono coalizzati contro di lui. E infatti, nell’agosto del 1878, durante una processione pacifica, un Carabiniere gli ha sparato in fronte. Sono in tanti, ancora oggi, a salire sul Monte Labbro per vedere l’eremo di Lazzaretti. Vale la pena anche perché dalla cima, se la giornata è limpida (e io ho avuto questa fortuna) si vede fino al Tirreno, fino all’Argentario e al Giglio.
Patrizio Roversi
Immagine Monte Amiata di Flickr User Helena